First and Second Wave of Coronavirus Regulations and Restrictions in Subsaharan Africa

di Romano Orrù

Nel breve volgere di circa un mese, dai primi contagi da Covid-19 registrati e sulla scorta della dichiarazione ufficiale da parte dell’Organizzazione mondiale della sanità (World Health Organization) del Covid-19 come pandemia l’11 marzo 2020 , i Paesi della regione subsahariana hanno variamente adottato, in più tornate, misure urgenti di contenimento e, laddove possibile, di gestione dell’emergenza epidemiologica in atto[1].

La diffusione del virus nell’area è stata rapidissima: dopo i primi casi annunciati a fine febbraio in Nigeria e Senegal[2] – cui si sono presto aggiunti Sudafrica, Togo e Camerun[3] –,  nel giro di poche settimane[4] pressoché tutti i circa cinquanta Paesi subsahariani sono risultati colpiti[5].

Il Sudafrica ad oggi è il Paese subsahariano con maggiore diffusione del virus[6].

La situazione in Africa è particolarmente preoccupante. Purtroppo non sono pochi i Paesi che “vantano” un sistema sanitario assolutamente non in grado di affrontare la sfida del contrasto al virus. La diffusione incontrastata del virus potrebbe avere effetti diretti oltremodo tragici e devastanti su popolazioni in molti casi già provate da altre gravi problematiche “naturali”: non ultime il persistere di malattie endemiche, l’invasione delle locuste[7] e la crisi idrica legata aggravata dai cambiamenti climatici. Di talché nel caso di ampia diffusione del virus nella regione subsahariana si profilerebbe una catastrofe sanitaria dalle proporzioni immani.

In primo piano, nell’adozione di misure particolarmente stringenti per prevenire e ridurre la propagazione del contagio sono anche gli effetti indiretti della minaccia di contagio, vale a dire i contraccolpi sociali e soprattutto economici.

In siffatta cornice di contesto con ogni probabilità l’auspicio sotteso all’azione di non pochi governanti dell’area è quella di rallentare la diffusione della malattia respiratoriacausata dal coronavirus per dare alle autorità sanitarie più tempo per riorganizzarsi in forza anche (e in taluni casi essenzialmente)di aiuti che auspicabilmente possano giungere dall’estero.

Quanto alle specifiche politiche di contrasto al virus, si nota in proposito una sorta di “agire mimetico” tra i Paesi africani, che prende come punto di riferimento i modelli di gestione dell’emergenza epidemiologica già sperimentati in Cina e in Italia.

La consapevolezza che i propri sistemi sanitari in molti casi sono il tallone d’Achille di strutture organizzative e infrastrutturali già molto deboli ha spinto la gran parte dei governanti africani ad assumere divieti e limitazioni ad ampio spettro di vario genere pur in presenza di pochi o pochissimi casi di contagio registrati sul proprio territorio (molto spesso inferiori alle  tre-cinque unità).

Quanto alla questione dell’adozione in sé delle misure di contenimento, nell’accostare la situazione dell’Africa subsahariana a quella di altre aree del globo, si può azzardare la riflessione per cui nella prima rispetto alle altre vi sono meno problemi di consenso, ma maggiori difficoltà di esercizio della sovranità (tra l’altro, alcuni Paesi, specie nella fascia del Sahel, non controllano pienamente il proprio territorio e hanno conflitti armati a più o meno bassa intensità). Per cui resta dubbia l’effettivo enforcement delle misure adottate, se non per tutti i territori interessati almeno per una significativa quota degli stessi.

L’improvvisa emergenza sanitaria esalta in Africa, come altrove, il ruolo degli esecutivi. Per i Paesi africani, all’apparenza risulterebbe piuttosto agevole sintonizzare la prassi nella materia in questione con i precetti costituzionali, e ciò non solo e non tanto alla luce dello stereotipo (storicamente fondato, ma anche oramai piuttosto superato) per cui a sud del Sahara domina l’autoritarismo (a sua volta causa-effetto del fenomeno per cui il principio di higher law è pura astrazione ovvero è ammesso secondo convenienza di chi detiene le leve del potere politico), ma anche e soprattutto per via della circostanza che gli ordinamenti costituzionali africani di ultima generazione prevedono, nella massima parte dei casi, sia un ruolo di particolare rilievo dell’esecutivo già nella dinamica istituzionale ordinaria quanto alla funzione di indirizzo politico con ampio riconoscimento di poteri normativi di rango primario sia l’espressa (e talvolta ampia) disciplina degli stati d’eccezione (particolarmente interessanti in tal senso sono le regolamentazioni, tra le altre, della Costituzione sudafricana del 1996 e di quella del Kenya e dell’Angola del 2010).

Il moltiplicarsi degli sforzi nella regione subsahariana per contenere gli effetti della pandemia può essere articolato, a meri fini descrittivi, in maniera bifasica. È bene specificare che una “prima” e una “seconda ondata” di provvedimenti restrittivi si susseguono in maniera asincrona per tutto il mosaico di Stati del subcontinente, e in lasso piuttosto ristretto di tempo, per cui non appare né facile né particolarmente utile nell’economia della presente sommaria esposizione il distinguerle analiticamente e a fondo: in proposito, ci si può limitare a notare, come criterio di massima, che tendenzialmente alla prima fase di regolazione attengono i provvedimenti di protezione (di “schermatura”) dei Paesi subsahariani verso l’esterno, mentre alla seconda – che grosso modo prende corpo nella terza decade del mese di marzo – vanno ricondotte in particolare le misure volte a contenere il contagio all’interno dei territori nazionali.

La pronta reazione riscontrata a sud del Sahara nell’adozione di misure restrittive e di contenimento fa perno anche sull’auspicio, a fronte della precarietà dei sistemi sanitari nazionali (che in svariati casi assicurano minime possibilità di cura), del possibile effetto sinergico[8] che potrebbe derivare dalla particolare struttura della piramide demografica del Continente, che presenta una base molto ampia, essendo l’età media della popolazione piuttosto bassa.

Come accennato, nell’intento di allontanare il più possibile scenari catastrofici, in Africa subsahariana già al primo manifestarsi di casi di contagi sono stati assunti particolari misure emergenziali di contenimento.

Nel rimarcare che si tratta di materia assolutamente magmatica e in continua evoluzione, va altresì preliminarmente avvertito che l’illustrazione che segue non intende (né altrimenti potrebbe) vantare pretese di esaustività, ma intende solo fornire indicazioni sulle principali tendenze d’intervento in atto.

Molti Paesi, in via generale, si sono risolti per la decretazione dello stato di emergenza sanitaria su tutto il territorio nazionale (tra questi: Mali[9], Niger[10], Senegal, Congo, RDC, Madagascar), preceduti in particolare dal Sudafrica, che già il 15 marzo 2020 ha provveduto ad attivare una situazione emergenziale – senza far ricorso al meccanismo di cui all’art. 37.1 della Costituzione del 1996 –, adottando, con fondamento normativo del Disaster Management Act del 2002[11], apposita «Declaration of a National State of Disaster» in forza della quale sono state varate molteplici misure specifiche. Coerentemente con lo scenario sin qui delineato, in Togo l’ esecutivo è stato autorizzato a governare per ordonnance.

All’interno della dichiarazione dello stato emergenziale, o anche a prescindere da tale profilo formale, da una rapida analisi, le misure assunte nel subcontinente risaltano come variegati tasselli di un articolato mosaico di restrizioni più o meno gravose ed efficaci che gli Stati africani si sono imposti nella lotta al virus.

Il novero delle misure meno restrittive e di più immediata attuazione (e per questo anche maggiormente condiviso dai Paesi subsahariani) ha la propria ratio nell’idea di “tutelare” il territorio nazionale rispetto a minacce di contagio provenienti dall’esterno. La “first wave” di interventi  contempla l’adozione di provvedimenti quali la chiusura delle frontiere (Niger; kenya: salvo che per i propri cittadini e i residenti stranieri, che devono però sottoporsi a auto-isolamento; Costa d’Avorio; Senegal; Congo; Mali: salvo che per le merci; Camerun, salvo che per i beni di prima necessità; Mauritania; Gambia: la chiusura delle frontiere è con il Senegal, peraltro suo unico paese confinante; Burkina Faso e Togo: chiusura delle frontiere terrestri a eccezione delle merci; Ruanda; Gibuti); l’interruzione ovvero la limitazione dei collegamenti aerei e marittimi (Kenya; Ciad: chiusura degli aeroporti a partire dal 19 marzo 2020; Sudafrica: sospensione dei collegamenti aerei con i paesi a rischio e chiusura porti per navi da crociera; Senegal e Gambia: chiusura dello spazio aereo; Mauritania: sospensione del traffico aereo internazionale;  Burkina Faso: chiusura degli aeroporti di Ouagadougou e di Bobo-Dioulasso; Togo: sospensione dei collegamenti aerei prevenienti da Italia, Francia, Spagna e Germania; Etiopia: sospensione dei voli in direzione di 30 paesi con infezione; Gibuti: sospensione dei voli internazionali; Guinea: sospensione dei voli commerciali con i paesi contagiati e quindi chiusura dell’aeroporto di Conakry); l’imposizione di limitazioni soggettive all’ingresso nel Paese e di messa in quarantena di particolari categorie di persone (Ghana: divieto d’ingresso sul territorio a tutte le persone provenienti da paesi con più di 200 casi di infezione, ad eccezione dei cittadini ghanesi; Benin: messa in quarantena di tutte le persone sospette e restrizione alla concessione di visti d’ingresso nel Paese; Burundi: messa in quarantena, di 14 giorni, per le persone provenienti da Paesi “a rischio”; Guinea: sospensione della concessione dei visti di ingresso; Gambia: quarantena per i viaggiatori in arrivo da paesi toccati dal virus; Etiopia: quarantena obbligatoria di 14 giorni per tutti i viaggiatori in arrivo in Etiopia; Ciad: controllo sistematico agli accessi di frontiera, messa in quarantena dei casi sospetti e proclamazione di un controllo sanitario esteso all’intero Paese[12]).

Paiono introdurre gli interventi tendenzialmente di “second wave”, che agiscono sulla popolazione già presente all’interno del Paese i provvedimenti relativi alla decretazione del coprifuoco militare notturno su tutto il territorio nazionale (Mali: dalle 21.00 alle 5.00; Costa d’Avorio: dalle 21.00 alle 5.00; Senegal: dalle 20.00 alle 6.00; Gabon: dalle 19.30 alle 6.00; Madagascar, dalle 20.00 alle 5.00; Burkina Faso: dalle 19.00 alle 5.00) o solo su alcune aree del territorio del Paese (Niger: nella capitale, Niamey, la sola città del Paese toccata dal virus,  dalle 19.00 alle 6.00 per un periodo di due settimane rinnovabile a partire dal 28 marzo 2020; Mauritania: dalle 18 alla mattina solo a Nouakchott); 

Del pari orientate all’obiettivo di abbassare drasticamente la frequenza dei contatti interpersonali altre ampie restrizioni alle libertà individuali e collettive derivano dalla varia assunzione di misure quali la proibizione di assembramenti superiori ad un certo al numero massimo di individui ovvero la proibizione tout court di detti assembramenti (Niger: vietati gli assembramenti con più di 50 persone; Sudafrica: vietati gli assembramenti con più di 100 persone; Gabon: divieto degli assembramenti con più di 30 persone; Camerun: divieto degli assembramenti con più di 30 persone; RDC: vietati gli assembramenti con più di 20 persone; Ciad: divieto di assembramenti di più di 50 persone; Madagascar: divieto di assembramenti tout court; Gambia: divieto di assembramenti pubblici; Burkina Faso e Togo: divieto di assembramenti; Guinea:  assembramenti superiori a 100 persone vietati a Conakry e divieto di riunioni senza l’adozione di misure collettive e individuali di contenimento a Conakry); il divieto di  manifestazioni pubbliche (Senegal; Benin: sospensione di tutti gli eventi non essenziali); le limitazione quanto all’apertura di esercizi pubblici di ristorazione e allo svolgimento di altre attività commerciali (Costa d’Avorio; Camerun: bar e ristoranti chiusura imposta alle 18.00; Mali: salvo i mercati; Mauritania; Burkina Faso: chiusura dei mercati, di Yaars e di ristoranti; Benin: chiusura di bar, discoteche e di altri luoghi di svago; Etiopia: chiusura di bar e discoteche; Uganda: chiusura dei locali notturni per un mese; Ruanda: chiusura degli esercizi commerciali non essenziali); la chiusura di scuole e università (Niger; Sudafrica: dal 18 marzo 2020; Costa d’Avorio; Senegal; Mauritania: chiusura delle scuole pubbliche, private e confessionali; Camerun; Madagascar:chiusura degli istituti scolasti e di insegnamento superiore; Gambia: chiusura delle scuole; Burkina Faso: chiusura degli istituti scolastici; Ghana Chiusura delle scuole dal 16 marzo; Togo: chiusura delle scuole; Uganda, chiusura delle scuole; Ruanda: chiusura delle scuole e delle università); la chiusura dei luoghi di culto (Ruanda; Togo) o la limitazione delle manifestazioni religiose (Mauritania: sospensione della preghiera del venerdì; Uganda: divieto di assembramenti religiosi).

Tra le azioni maggiormente costrittive e impegnative attinenti sempre all’esigenza di contenere la propagazione del contagio all’interno del territorio nazionale (e riconducibili alla “second wave” piena), spiccano, oltre al completo lockdown sudafricano (su cui dirà meglio a parte più sotto) e almeno dello Zimbabwe (su tutto il territorio, per un periodo di 21 giorni a far data dal 30 marzo 2020) e della Nigeria (per i territori statali di Lagos e Abuja[13], che registrano la grande maggioranza dei contagi ufficialmente censiti a livello federale), le misure relative all’isolamento-quarantena di particolari zone o aree del paese  (Madagascar: isolamento della regione di Analamanga – Antananarivo – e del porto di Tamatave, con sospensione dei voli interni; Burkina Faso: quaratena per Ouagadougou, Bobo-Dioulasso, Boromo e Degougou); Togo:bouclage” delle città di Lomé, Tsevie, Kpalime, Sokodé; Benin: isolamento parziale di taluni municipi), al divieto di spostamento da un centro abitato all’altro (Ruanda), alla sospensione dei trasporti pubblici (Burkina Faso; Ruanda, divieto di trasporto di passeggeri per i moto-taxi).

Fanno da corollario alle misure sopra indicate altri provvedimenti particolari quali ildivieto assoluto di spostamento al di fuori dei campi per i rifugiati(Ciad); il confinamento di cittadini cinesi in una base militare cinese (Gibuti); la messa in opera di un cordone sanitario attorno ai centri abitati più esposti (Benin); il ricorso al telelavoro, o “smart working” (Ruanda); la sospensione di missioni ufficiali nei e dai paesi contagiati (Guinea); e, last but not least, l’annuncio di misure di sostegno economico e sociale a favore in particolare di categorie vulnerabili (Niger; Kenya). Anche sull’implementazione effettiva e adeguata della misura da ultimo ricordata si addensano nubi di incertezza, attesa la cronica insufficienza di risorse economiche endogene per le politiche di welfare a sud del Sahara.

La particolare situazione del Sudafrica in rapporto all’emergenza causata dalla diffusione del Covid-19 merita, come anticipato, alcune note specifiche. Il Sudafrica in Africa al pari dell’Italia in Europa è il paese maggiormente colpito sulle prime dal contagio. Anche le contromisure sudafricane d’ordine pubblico e sanitario si avvicinano decisamente al corrispondente modello d’azione italiano di “socialità fortemente ristretta”.

Il 15 marzo 2020, il Presidente sudafricano (Cyril Ramaphosa), in un national address ha annunciato la Declaration dell’infezione da del Covis-19 quale “national disaster” ai sensi e per gli effetti del Disaster Management Act del 2002: il legal framework per la regolamentazione emergenziale è stato così individuato al di fuori delle previsioni che all’uopo detta la Costituzione della Repubblica del Sudafrica del 1996 (CRSA). La dichiarazione di “national disaster” differisce da quella di “state of emergency”, poiché quest’ultima, ai sensi dell’art. 37.1 CRSA, può essere dichiarata solo in forza di una legge votata dal Parlamento e consente di derogare a gran parte dell’ampio catalogo dei diritti – il “Bill of Righs” – contemplato dalla CRSA al suo Chapter 2. In quest’ottica, il ricorso allo stato di “national disaster” assolverebbe ad una funzione garantista in quanto le misure adottate nel suo vigore dovrebbero conformarsi al Bill of Rights[14].

L’emergenza sanitaria non ha consentito (per la farraginosità della procedura) o, se si preferisce, non ha suggerito (per non utilizzare uno strumento estremo, quale lo “state of emergency”, che potrebbe rivelarsi pericoloso per le libertà individuali) di attivare le modalità emergenziali in termini costituzionali, e resta dubbio al momento se siano operative o meno tutte le diverse e dettagliate prescrizioni dell’art. 37 CRSA circa le misure di garanzia relativamente alla gestione degli stati di emergenza. Si può facilmente ipotizzare che in ogni caso le misure assunte dall’esecutivo sudafricano possano essere oggetto di un controllo di conformità costituzionale in termini di rispetto del criterio della proporzionalità, avendo riguardo ai vincoli discendenti dall’ampio catalogo dei diritti di cui al Chapter 2 della CRSA. In termini più ampi, sul piano teorico si aprirebbe spazio anche in quell’ordinamento per un dibattito se si sia in presenza a meno di un aggiramento e, al limite, di una “rottura” della Costituzione; questione comunque che, per la drammaticità della situazione, al momento rimane decisamente sullo sfondo e che forse, per la stessa ragione, non verrà ritenuta degna neanche successivamente di essere portata in primo piano).

Sta di fatto che il Minister of Co-operative Governance and Traditional Affairs, Ms. Nkosazana Dlamini-Zuma, ha prima firmato la Declaration of National State of Disaster[15], il 15 marzo, e successivamente ha provveduto ad emettere (ai sensi della section 27.2 del Disaster Management Act) due “sets” di general regulations (il 18 marzo, la prima, e il 25 marzo, la seconda)[16] oltre a una serie di misure settoriali e specifiche che contemplano un’ampia serie di restrizioni il cui profilo di maggior momento, sul piano del distanziamento sociale è certamente rappresentato dall’introduzione di uno stretto lockdown[17] (radical physical distancing) in tutto il Sudafrica per un periodo di tre settimane[18] (in forza del quale sono sospese molte attività economico-produttive e tutte le persone sono confinate nelle proprie abitazioni, salvo che debbano provvedere a servizi essenziali, procurarsi beni o servizi essenziali, provvedere alla raccolta di contributi da destinare a usi sociali o avere necessità di cure mediche d’urgenza e non procrastinabili)[19].

In relazione al complessivo quadro tratteggiato nelle pagine che precedono sovvengono alcune riflessioni essenziali.

Innanzitutto, i provvedimenti adottati nella loro varietà e tempestività (riguardo al manifestarsi dei primi casi di contagio) testimoniano che i Paesi subsahariani hanno piena consapevolezza di appartenere al continente più debole e meno attrezzato nella lotta al virus, per cui molto importante risulta anche ai loro occhi l’aspetto di prevenzione e di contenimento iniziale (anche se questa consapevolezza in taluni casi pare dover cedere dinanzi a particolari esigenze o realtà socio-politiche con profonde implicazioni locali, come nel caso del Mali (dove nonostante l’allarme per la pandemia, è stato confermato e si è svolto, il 29 marzo 2020, il primo turno delle elezioni parlamentari)[20] e del Ciad (in alcune aree del quale sono in atto scontri armati con milizie jihadiste, che rendono di per sé illusoria la possibilità di applicazione di particolari misure sanitarie in maniera adeguata e ad ampio raggio). Con riguardo alla questione sanitaria bisogna inoltre tener a mente che in Africa subsariana altissima è l’incidenza (con eventi di mortalità elevatissimi in termini sia assoluti che relativi[21]) di deseases (recte: di malattie endemiche) quali HIV, malaria e tubercolosi. L’allarme per questi fenomeni patologici non può cessare o subire un effetto di sostituzione, anche parziale, con quello per il Coronavirus: questo è un impegno che dovrebbe chiamare alla mobilitazione anche al di fuori del Continente.

In secondo luogo, non si può nascondere la preoccupazione che in alcune “democrazie elettorali” (ovvero “incompiute” o “insufficienti”) d’Africa i leader di turno, approfittando della cronica debolezza del ruolo dei Parlamenti e del funzionamento complessivo del sistema dei checks and balances, utilizzino l’emergenza per consolidare il proprio potere con alti rischi di regressione nella tutela dei diritti e di derive ancor più autoritarie.

Infine, non sono da sottovalutare le possibili profonde conseguenze economiche e sociali causate dalla pandemia. Gli effetti connessi alle misure anti Covid-19 prese sia all’interno che all’esterno del Continente rischiano di compromettere i tentativi di rilancio dell’economia, già molto precaria e di scatenare una forte conflittualità sociale.

Importante per i profili qui sopra evidenziati può essere il ruolo delle organizzazioni operanti a livello sia continentale (UA) che subcontinentale (RECs), ma in ogni caso una particolare e mirata solidarietà internazionale[22] (che non lasci il ruolo di attore protagonista quasi esclusivo alla Cina) dovrebbe investire l’Africa. Perché l’Occidente non può non nutrire un senso di “cattiva coscienza” nei confronti del passato anche prossimo dell’Africa e perché è nell’interesse di tutti.

(Il presente scritto è aggiornato al 2 aprile 2020)

 


[1] Le principali fonti di documentazione utilizzate (salvo diversa e specifica indicazione nelle note a piè di pagina) sono le seguenti: www.africanews.com; www.adnkronos.com; www.aljazeera.com; www.bbc.com; www.france24.com; www.gov.za; www.ispionline.it; www.jeuneafrique.com; www.lemonde.fr; www.who.int.

[2] Rispettivamente, il 27 e 28 febbraio 2020: https://apps.who.int/iris/bitstream/handle/10665/331587/SITREP_COVID-19_WHOAFRO_20200325-eng.pdf.

[3] I primi due Paesi indicati il 5 marzo 2020 e il terzo il giorno successivo.

[4] A metà marzo circa sono registrati contagi già in diciassette Paesi: ai due dianzi citati si sono aggiunti Sudafrica, Costa d’Avorio, Burkina Faso, Togo, Camerun, Repubblica democratica del Congo, Guinea (Conakry), Guinea Equatoriale, Gabon, Ghana, Etiopia, Kenya, Sudan, Ruanda e Mauritania (https://www.avvenire.it/mondo/pagine/il-contagio-africa).

Al 25 marzo il numero dei Paesi coinvolti dalla diffusione del virus in Africa subsahariana sale a 37 con un totale di 1452  casi confermati e 13 decessi secondo i dati dell’OMS; per i dati dell’intero continente vanno aggiunti i 264 casi confermati e i 17 decessi dell’Algeria: https://apps.who.int/iris/bitstream/handle/10665/331587/SITREP_COVID-19_WHOAFRO_20200325-eng.pdf.

[5] Al 1° aprile 2020 solo cinque paesi subsahariani non hanno ancora ufficialmente dichiarato contagi da coronavirus sul proprio territorio: Comore, Lesotho, Malawi, São Tomé e Príncipe, Sud-Sudan.

[6] Al 25 marzo 2020 il Sudafrica conta 709 contagi certificati sui 1716 dell’intero Continente. Secondo il Centre pour la prévention et le contrôle des maladies de l’Union africaine, al 31 marzo, l’Africa conta 5287 casi confermati di coronavirus e 172 decessi. Dopo il Sudafrica, il Burkina Faso e la Costa d’Avorio risultano i Paesi con maggiore diffusione del virus.

[7]  In particolare, in Kenya, Etiopia, Eritrea, Gibuti e Somalia. Tra i moltissimi contributi digitali sul tema cfr. S. Pintus, Cavallette, l’invasione si allarga verso il Congo-K a oriente fino all’Iran, in Africa-ExPress, 4 marzo 2020 (reperibile all’indirizzo internet https://www.africa-express.info/2020/03/04/cavallette-invasione-verso-congo-a-oriente-fino-a-iran/).

[8]  Stando alle informazioni e ai risultati empirici attualmente disponibili, che vorrebbero la popolazione più giovane certamente non immune ma decisamente meno interessata dal virus e dai suoi effetti.

[9] Dal 26 marzo 2020.

[10] Dal 27 marzo 2020.

[11] Act n. 57 of 2002.

[12] Misura in buona misura di principio in quanto parte del territorio è caratterizzata dalla presenza di milizie jihadiste.

[13] A far data dal 30 marzo 2020, e per un periodo di due settimane.

[14] Così, tra i primi commenti, P. De Vos, Steps to curb coronavirus spread: more legal questions answered, in Constitutionally speaking, 22 marzo 2020 (consultabile sul sito internet https://constitutionallyspeaking.co.za).

[15] Ai sensi della sec. 3 e della  sec. 27 del Disaster Management Act del 2002. Declaration pubblicata in Government Gazette n. 43096, del 15 marzo 2020.

[16] Pubblicate, nelle date indicate nel testo, in Government Gazette, rispettivamente, n. 43107 e n. 43148. Può essere utile notare che il secondo testo normativo è costruito formalmente in termini di emendamento al primo, per cui a versione consolidata si avrebbe un solo insieme di Regulations.

[17] Art. 11A, Regulations, 18-25 marzo 2020: «’lockdown’ means the restriction of movement of persons during the period for which this regulation is in force and effect».

[18] A far data dalle ore 23.59 del 26 marzo 2020 e fino alle ore 23.59 del 16 aprile 2020 (Art. 11A, Regulations, 18-25 marzo 2020), periodo durante il quale «the movement of persons is restricted; and ‘movement’ means entering or leaving a place of residence».

Può essere interessante rilevare, che si riprende il limite temporale degli stati di emergenza così come previsto dall’art. 37.2.b CRSA.

[19] Le Regulations del 25 marzo 2020 riportano in allegato sia l’individuazione di beni e i servizi da reputarsi essenziali (Annexure B) sia l’elenco dei luoghi chiusi al pubblico e delle attività economico-commerciali non consentite (Annexure D).

[20] Elezioni che erano già state rinviate due volte per diversi e gravi motivi, e che hanno registrato, com’era facilmente prevedibile, un’affluenza bassissima alle urne; resta fortemente incerto se potrà aver luogo il secondo turno di ballottaggio in calendario per il 19 aprile 2020.

[21] Avendo riguardo a tutte le altre aree del globo.

[22] Una prima, concreta misura potrebbe consistere nella riduzione del debito per i Paesi africani impegnati nella lotta al virus, come invoca il Direttore generale della World Health Organization, Adhanom  Tedros: «For those countries, debt relief is essential to enable them to take care of their people and avoid economic collapse. This is a call from the WHO, the World Bank and IMF – debt relief for developing countries» (in proposito v. https://www.aljazeera.com/ajimpact/developing-countries-debt-relief-virus-fight-200402032716219.html, 2 aprile 2020).

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